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432 pages, Paperback
First published January 1, 2017
Sapevo che il vero aleph di questa narrazione l’avevo già in tasca. Era una statuina minuta, circa tre centimetri di lunghezza, di porcellana bianca e fattura piuttosto convenzionale, un putto nudo e riccioluto che sarebbe potuto passare per un cupido, se non fosse stato per i calzini. L’ho comprato su una bancarella di antiquariato a Mosca, dove si sono resi conto tardi che gli oggetti del passato sono costosi. Ma non mancavano quisquilie da due soldi, e infatti in una vaschetta colma di ogni genere di bigiotteria intravidi una scatola che conteneva un mucchietto di cosini bianchi. Stupiva che non ce ne fosse almeno uno tutt’intero, bene o male ostentavano tutti qualche mutilazione: chi niente braccia, chi niente testa, e tutti quanti senza eccezione scheggiati e ammaccati. Li rigirai a lungo tra le dita in cerca di uno un po� più grazioso, finché non trovai il più bello. Era quasi intero ed emanava un luccichio da regalo. Ricci e fossette al loro posto, e anche i calzini lavorati a maglia, e né la macchia scura sulla schiena né l’assenza delle braccia impedivano di deliziarsene. Naturalmente chiesi alla signora della bancarella se per caso ne avesse uno ancora più integro, e in risposta mi raccontò la storia che decisi di approfondire. Queste statuine da due soldi sono state prodotte in una città tedesca per mezzo secolo, mi disse la signora, dalla fine degli anni ottanta del XIX secolo. Le vendevano un po� dappertutto, nelle drogherie e nei negozi di casalinghi, ma la loro funzione principale era un’altra: semplici ed economiche, venivano usate nel trasporto delle merci come paracolpi friabili, affinché le cose pesanti non si sbeccassero urtandosi nel buio. In pratica queste statuine venivano prodotte apposta per essere mutilate; ma poi, prima della guerra, la fabbrica chiuse. I magazzini, pieni di queste piccole porcellane, rimasero dismessi finché non finirono sotto un bombardamento, e parecchio tempo dopo, quando le casse vennero aperte, dentro non rimanevano che pezzi monchi. Così comprai il mio putto senza prendere nota del nome della fabbrica o del telefono della signora della bancarella, sapendo però che probabilmente mi portavo in tasca il finale del mio libro: la soluzione del problema che si ha l’abitudine di cercare nelle ultime pagine. Diceva già tutto. E che non esiste storia che arrivi integra fino a noi, senza piedi malconci e teste penzoloni. E che lacune e strappi sono l’immancabile compagno di viaggio dello stare al mondo, il motore recondito, il meccanismo della futura accelerazione. E che solo il trauma ci trasforma da prodotti di massa in un noi inequivocabile, un noi al dettaglio. E che naturalmente anch’io sono una di quelle statuine, un oggetto di larga produzione, frutto della catastrofe collettiva del secolo andato, suo survivor e involontario beneficiario, al mondo per miracolo e tra i vivi.
…]
Una sera piovosa la statuina mi cadde di tasca e si ruppe sul pavimento di piastrelle della vecchia casa, come l’uovo d’oro nella favola della gallina pezzata. Si ruppe in tre pezzi, la gamba nella calzina volò sotto la pancia della vasca da bagno, il corpo da una parte, la testa dall’altra. Ciò che illustrava alla meno peggio l’integrità della storia propria e famigliare d’un tratto divenne allegoria: dell’impossibilità di raccontarla e dell’impossibilità di conservare almeno qualcosa, e della mia totale incapacità di rimettere insieme me stessa dai frantumi di un passato altrui o almeno appropriarmene in modo convincente.
Memory is handed down, history is written down; memory is concerned with justice, history with preciseness; memory moralizes, history tallies up and corrects; memory is personal, history dreams of objectivity; memory is based not on knowledge, but on experience: compassion with, sympathy for a desperate pain demanding immediate involvement. At the same time the landscape of memory is strewn with projections, fantasies and misrepresentations � the ghosts of today, with their faces turned to the past.
We sat at a long wooden table in the library, which appeared to hold every book written on any matter that might be considered Jewish. I asked questions and got answers. Then the museum advisor, a historian, asked me what I was writing about and I began to explain. “Ah,� he said. “One of those books where the author travels around the world in search of his or her roots � there are plenty of those now.�
“Yes,� I answered. “And now there will be one more.�
Putting my family on general view, even if I do it with as much love as I can muster and with the best words in the best order, is, after all, something of a Ham’s deed, exposing the vulnerable and naked body of the family, its dark armpits, its pale belly. And most likely I would learn nothing new in writing it, and just knowing this made the act of writing even more fraught. Yes, free of scandalous revelation, far from the hell of Péter Esterházy, who found out that his beloved father had worked for the secret police, but also far from the bliss of having always known everything about your people, and bearing this knowledge with pride. Neither of these outcomes were mine. This book about my family is not about my family at all, but something quite different: the way memory works, and what memory wants from me.
Jean Cocteau said that cinema is the only art form that records death at work. Rembrandt’s self-portraits are solely occupied with recording death, and lined up together they make a sort of protofilm � whereas the kilometers of selfies, taken and uploaded for communal access, look like the exact opposite to me: the chronicle of death as it walks amongst us, no longer of any interest to anyone.